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L’adolescenza e l’adolescente

La mamma di Angelo descrive suo figlio tredicenne:”mio figlio mi è sempre piaciuto, tanto tranquillo, disponibile, affettuoso… mi somigliava tanto e questo mi ha sempre gratificata. All’improvviso ha iniziato a non voler più dare una mano né a me né al padre, ad essere scontroso, a fare discorsi strani sul nostro essere rigidi e poco comprensivi nei confronti delle sue difficoltà a scuola, a litigare in continuazione con la sorellina che ha sempre adorato e con cui ha tanto giocato sopportando anche le sue intemperanze… si chiude in quella camera senza permettere che nessuno entri, lo veda, come dice lui “lo controlli”… non condivide quasi più nulla con noi.. solo con il nonno, con mio padre, parla di una ragazzina della palestra… all’improvviso per mio figlio non servo più….”

L'adolescenza - termine che deriva dal latino “adolesco” = crescere- inizia con la pubertà che viene in qualche modo definita dai cambiamenti biologici e quindi fisici, dalle trasformazioni di un corpo che quasi all’improvviso prende una forma differente. Il cambiamento fisico e del relativo assetto pulsionale si associa a esperienze emozionali forti che richiedono all’adolescente di cercare nuovi equilibri sia con se stesso sia con il mondo circostante, fatto di relazioni ad ampio respiro. Nel processo di transizione verso lo stato di adulto entrano, dunque, in gioco ed interagiscono fra loro fattori di natura biologica, psicologica e sociale. Gli adolescenti possono provare forti insicurezze o manifestare stati d'ansia, avere la sensazione di inadeguatezza; alla maturazione biologica conseguono sempre nuovi comportamenti e quindi risvolti psicologici importanti, che influenzano fortemente lo sviluppo della personalità dei futuri adulti.

Dunque la parola d’ordine è“transizione”. La questione è che il “transito” non deve essere considerato solo nell’espressione di sé dell’adolescente, ma anche la famiglia- soprattutto i genitori- deve “transire” senza essere intransigente ma contenitiva. Cerchiamo, dunque, di entrare in quel q.b. (acronimo di “Quanto Basta”) di quelle ricette che ai principianti, quindi inesperti di dosaggi, mette ansia e procura disorientamento. Così come accade ai genitori.

In precedenti riflessioni abbiamo accennato a quello che viene definito “ciclo di vita” di un individuo le cui tappe essenziali sono definite dal passaggio da una fase evolutiva all’altra (dall’infanzia all’adolescenza, dall’essere lavoratore all’essere pensionato, dall’essere coppia all’essere genitori, ecc.). Dunque l’adolescenza rappresenta proprio la fase di transizione dall’essere bambino all’essere giovane adulto. In questo passaggio conseguentemente cambiano anche le esigenze: dalle figure di riferimento ci si aspetta, più o meno in maniera consapevole, qualcosa di differente dalla sola protezione o accudimento. D’altro canto le trasformazioni sia fisiche sia psicologico-affettive portano cambiamenti nella sfera cognitiva e relazionale. Per non correre il rischio di vedere l’adolescente solo in balia di tempeste ormonali con comportamenti di rivolta e conflitto, è necessario collocarlo all’interno del suo sistema di vita fatto di rapporti sociali e familiari. Dunque si deve far emergere l’adolescenza come un periodo di trasformazioni sia interiori sia esterne al sé, sia intra che extra familiari. In questa fase sono vari gli attori che possono concorrere a facilitare o ostacolare lo sviluppo psicologico del ragazzo/a. Attorno a lui/lei gravitano i genitori, i familari, i coetanei, gli insegnanti/educatori (di scuola, sport, centri culturali, sociali, parrocchie), in alcuni casi anche gli psicologi.

Rispetto al rapporto con gli adulti, ed in particolare i genitori, ciò che si attiva è una sorta di emancipazione dalla relazione accudente a quella in cui il giovane si incanala (e gli deve essere permesso di farlo) verso una maggiore autonomia. Le due dimensioni relazionali essenziali in questo processo sono l’individuazione e la separazione. Da un lato c’è il bisogno di indipendenza. L’adolescente non sente più di essere simile ai genitori, il vissuto di appartenenza vacilla. Si avvia un processo di identificazione con altre figure. Pur rimanendo legato ai genitori, anche se in maniera ambivalente, alterna momenti in cui emerge il bisogno di indipendenza ad altri in cui sente la necessità di protezione e di mantenere il legame con le cure parentali.

D’altro canto, anche i genitori incontrano difficoltà tra il dosare, il concedere maggiore autonomia, il riconoscere l’individualità dell’essere in crescita del proprio figlio ed il cercare di essere ancora la figura accogliente, accudente, protettiva. Genitori e figli sono accomunati dal non sentirsi più, nel gergo comune, “né carne né pesce”. Gli adulti corrono il rischio di passare da un eccessivo permissivismo ad un altrettanto eccessivo controllo provocando nel ragazzo/a sentimenti di insicurezza, frustrazione, incomprensione, rabbia.

Il padre di Loredana, quindicenne, dice: “è stata una figlia a cui sia io sia mia moglie ci siamo appoggiati; sino a poco più di due anni fa si prendeva cura da sola della sorella di cinque anni più piccola; è lei che le ha insegnato tante cose, a non essere paurosa, a non annoiarsi, a leggere, a fantasticare…adesso non si fila più la sorella, sempre con quelle cuffie a suonare la batteria, con la faccia scocciata, non fa altro che criticare tutto quello che facciamo, come ci comportiamo con la piccola….. eppure tutti ci dicono che a scuola è un amore, disponibile con gli amici, forse anche troppo, dolce e carina anche con i genitori di una sua amica che si stanno separando….non ci sopporta…. Sta in continuazione a dare consigli alle sue amiche, a quel suo ragazzetto con cui è affettuosa, è legatissima a lui e alla sorella di lui, passa giornate intere a parlarci per telefono o ad uscirci…Mia moglie litiga in continuazione con lei, non sopporta il modo di guardarci, quel suo continuo giudicarci e criticarci… pensiamo di farle un regalo permettendole di uscire sino a mezzanotte e invece lei ci risponde che è un suo diritto uscire e rientrare quando finisce la festa… tutto ciò che facciamo è sbagliato…”

Il timore di non essere compresi dai genitori o addirittura puniti per i comportamenti ritenuti inadeguati da questi ultimi, spinge il ragazzo/a a rifugiarsi nella relazione con i pari, vissuti come di supporto e maggiormente comprensivi. E così i coetanei da compagni di gioco o di studio possono diventare punto di riferimento, stimolatori di emozioni spesso da condividere; possono fare da specchio per confermare i comportamenti sociali e per fornire un appoggio al bisogno di sostegno e cura, sino ad allora prerogativa della relazione con i genitori. Nei coetanei l’adolescente cerca, quindi, conferma e approvazione all’immagine corporea che cambia e riconoscimento nella sfera emotiva dei propri sentimenti e bisogni.

Il conflitto dell’adolescente con il proprio mondo di vita viene visto da molti adulti come esclusivamente negativo. E’ sicuramente faticoso, di difficile gestione sia per i figli quanto per i genitori o adulti significativi. Permette all’adolescente, però, attraverso il suo chiarimento e superamento, di sviluppare delle abilità sociali che abitueranno il giovane all’ascolto, al riconoscere e accettare le opinioni degli altri per negoziarne delle altre con se stesso e con l’esterno. Difatti, dai tanti studi effettuati sullo sviluppo socio-emotivo dell’adolescente che arriva ad essere adulto, emerge che i giovani che diventano più serenamente autonomi e indipendenti sono quelli che durante l’adolescenza hanno avuto i genitori (o uno dei genitori) pronti ad accoglierli, ad ascoltarli, a confortarli nei momenti di paura, ma nello stesso tempo anche pronti ad indicare loro le corrette regole per riconoscere e rispettare se stessi e gli altri; genitori che non hanno negato e rifuggito la relazione difficile o anche conflittuale con il figlio/a adolescente ma hanno fatto da sponda agli eccessi comportamentali non giudicandoli ma comprendendoli e mantenendo il rispetto per il figlio come persona a sé e non come un derivato di sé.

L'adolescenza si va a concludere quando l’individuo è in grado di stabilire rapporti stabili e significativi con se stesso, con i gruppi di riferimento e con il proprio ambiente di vita a più ampio respiro, accettando e gestendo in maniera consapevole e flessibile il confine tra se e gli altri.


Articolo a cura della
Dr.ssa Stefania Martina
Psicologa Psicoterapeuta a Roma

Dott.ssa Stefania Martina
Psicologa Psicoterapeuta

Roma

Iscritta all’Albo Professionale degli Psicologi della regione Puglia n. 1050
Laurea in Psicologia
P.I. 09826701006

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