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I disturbi psicosomatici e i propri sistemi di vita

La cultura occidentale si è costruita su dicotomie. Le polarità positivo-negativo, mente-corpo sono storicamente esemplificative.

Si è passati, soprattutto nell’ultimo secolo, dal pensare al corpo come aggregato di organi all’intercettare il nesso lineare di causa ed effetto tra le manifestazioni corporee come espressione di un malessere dell’anima.

Sempre più negli ultimi anni, però, si è cercato di “ricomporre” l’essere umano in termini globali, inserendo il corpo in interazione circolare tra la mente, la biologia e l’ambiente sociale e culturale.

Bisogna, dunque, cercare le connessioni per comprendere il disturbo cosiddetto psicosomatico che, in tal modo, assume un carattere comunicativo di un sistema più ampio, che non riguarda solo l’individuo che esprime il malessere ma l’interazione con il mondo culturale e relazionale di appartenenza e ne evidenzia caratteristiche e regole. Dunque, il focus non è più l’individuo ma i sistemi in cui è inserito e le situazioni in cui è consapevolmente o, ancor più, inconsapevolmente coinvolto. Il terapeuta si troverà a dover decifrare e chiarire il significato del sintomo psicosomatico del paziente inserendolo all’interno della “rete”. Il sintomo diventa così un comportamento comunicativo. Con ciò non si vuole sottovalutare l’influenza dell’alterazione biologica del “soma” ma è evidente che il fattore biologico non può esprimere l’intera verità di quanto la persona provi fisicamente. Soprattutto quando ad esprimere il sintomo psicosomatico è un bambino, un adolescente (ma spesso anche quelli che, in un precedente articolo, abbiamo definito “giovani adulti”) è importante che l’intervento psicoterapeutico sia mirato alle relazioni all’interno dell’intero sistema famiglia del paziente.

Sia il prof. S. Minuchin, sia la prof. Sellini Palazzoni hanno studiato i modelli transazionali di famiglie prevalentemente con figlie anoressiche, o pazienti diabetici o asmatici. Sono emerse delle caratteristiche disfunzionali nei modelli organizzativi ed interattivi di queste famiglie che essenzialmente possono essere riassunte in queste quattro tipologie:

a) invischiamento; si tratta di famiglie in cui la privacy non è prevista e mal tollerata. Ogni componente tende, dunque, ad intrudere nelle azioni, nei sentimenti e nei contenuti di comunicazione degli altri. Spesso i confini tra generazioni sono sottili portando confusione nel riconoscimento vissuto di ruoli e funzioni.

b) Rigidità; l’immagine può essere di una famiglia molto unita che all’infuori della malattia del paziente (cosiddetto “paziente designato”) non afferma di avere altri problemi. Il cambiamento in essa è vissuto come inaccettabile ed i rapporti con l’esterno sono da controllare ed anche evitare.

c) Iperprotettività; una famiglia in cui tutti si mobilitano per cercare di proteggere il paziente, concentrando l’attenzione solo sulla malattia del singolo ed accantonando i conflitti intrafamiliari in essere che altrimenti dovrebbero essere affrontati. In tal senso il sintomo diventa protettivo ed evitante di altre problematiche.

d) Evitamento del conflitto; si tratta di famiglie in cui vi è la percezione di notevole pericolosità nell’espressione del conflitto. Spesso il sintomo del paziente si amplifica proprio nel momento in cui il conflitto rischia di esplodere apertamente. Con la comparsa del sintomo o della crisi, il conflitto viene bloccato in quanto l’attenzione viene dirottata sul problema.

Riportando le rilevazioni di diverse ed anche recenti ricerche sulle caratteristiche disfunzionali delle famiglie, si vuole mettere in evidenza quanto la comparsa o il mantenimento del sintomo permetta spesso di mantenere stabile l’organizzazione della famiglia con queste caratteristiche e a conservare l’equilibrio patologico.

Sinora è stato usato il concetto di “sistema” portando l’esempio della famiglia. In realtà il sistema è un gruppo di persone che sono tra di loro in interazione e che cercano di definire le relazioni tra di loro attraverso delle regole interne. Per “regole” si intendono i modelli interattivi che caratterizzano l’organizzazione delle relazioni tra i membri di quello specifico sistema. Dunque vari sono i sistemi di appartenenza, quello dei colleghi, degli amici, dell’azienda.

La capacità di trasformazione e di cambiamento sono le funzioni che si devono bilanciare con flessibilità. Nei sistemi definiti “patologici” è possibile evidenziare una rigidità delle regole per evitare i naturali cambiamenti in base alle esigenze evolutive dei singoli. In queste famiglie il sintomo sopraggiunge proprio quando sarebbe necessario affrontare le diverse fasi del ciclo vitale (ad esempio il matrimonio del proprio figlio o l’andare a studiare dello stesso lontano da casa) che ovviamente comportano trasformazione e flessibilità. Spesso il sistema famiglia “rigida” è disposta a pagare il prezzo estremo del sintomo pur di non modificare lo status quo.

In tal senso, spesso in psicoterapia ci si può trovare ad osservare una sorta di “migrazione del sintomo”. Può accadere infatti che, a fronte del miglioramento del sintomo di un membro del sistema, si “ammali” un altro.

Una esemplificazione di questo fenomeno è quello di Lucia ed Oreste.

Oreste è un importante commercialista, viene in psicoterapia per l’ennesima crisi di panico. Difatti, ad intervalli di 7-8 anni entra in questa dimensione di sofferenza totalizzante in cui tutto si ferma per lui e apparentemente anche per il suo contesto di vita.

E’ evidente che il sintomo continua ancora ad avere una funzione. E’ da capire quale. Quale messaggio sta veicolando?

Nel contestualizzare il malessere di Oreste emerge la relazione pluriennale con la moglie Lucia. Una donna che descrive fragile, da proteggere, una pensatrice, poco con i piedi per terra. Lucia, però, quando Oreste ricade nel suo profondo disagio, si rivela puntualmente forte, diversa, pratica. Una donna che all’improvviso si risveglia dal suo torpore e affronta il menage con forza ed energia. Risulta così evidente che inconsapevolmente Oreste mette a disposizione il suo dolore, la sua sofferenza pur di lasciare generosamente la possibilità a Lucia di emergere. Orazio inizia a stare meglio. Nei mesi si decide di interrompere la terapia. La terapeuta però fa l’errore di non lavorare direttamente con entrambi su queste modalità relazionali che permeano il modo di stare insieme di Lucia ed Oreste. Infatti, dopo circa setto o otto mesi Lucia chiama la terapeuta chiedendo un appuntamento. Sta male, è entrata in una forte depressione, non riesce più a ritrovare la sua solita leggerezza, l’unico aspetto positivo è la vicinanza stretta e protettiva di Oreste che le sta accanto, l’aiuta, la sprona. Oreste è bianco, ad essere nera ora è Lucia. La “migrazione del sintomo” ha ragione di essere perchè purtroppo tra i coniugi vige ancora la regola di relazione che, per stare insieme e non affrontare il conflitto latente tra i due, a turno è necessario entrare in crisi per dare modo all’altro, o all’altra, di pensare impossibile chiudere il rapporto spostando l’attenzione su qualcosa di più urgente.


Articolo a cura della
Dr.ssa Stefania Martina
Psicologa Psicoterapeuta a Roma

Dott.ssa Stefania Martina
Psicologa Psicoterapeuta

Roma

Iscritta all’Albo Professionale degli Psicologi della regione Puglia n. 1050
Laurea in Psicologia
P.I. 09826701006

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